Project Description
IL MIO IRAN
MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Roma, 2014
Ascoltando gli altri, ho capito che la testimonianza si arricchisce quando siamo dieci persone, cento persone, perché avendo la mia esperienza non potevo immaginare l’esperienza degli altri, e in questo senso sentire altre storie mi ha dato una meravigliosa comprensione di come si può testimoniare.
Helia Hamedani, partecipante al progetto
Quale potenziale assuma la narrazione nell’incontro con opere che testimoniano una storia recente e controversa (richiamando vissuti anche dolorosi come l’esilio dal proprio Paese, le sofferenze e le ferite della guerra) lo si può intuire dalle parole delle persone che hanno partecipato al progetto “Il mio Iran”.
Foto di Giovanni Gervasi e Marco Riccardi
“Il mio Iran”, curato da Marta Morelli (Dipartimento Educazione del MAXXI) e Silvia Mascheroni, coinvolge alcuni cittadini di origini iraniana nella produzione e condivisione di interpretazioni “altre” rispetto alla lettura curatoriale del proprio patrimonio più recente, esposto al MAXXI nella mostra temporanea Unedited History. Iran 1960-2014.
Un laboratorio di scrittura partecipata ha portato alla creazione di 12 storie, raccolte in una brochure dedicata e rielaborate in forma di didascalie esposte accanto alle opere (nello stesso formato delle didascalie storico-artistiche, ma in un colore diverso); le videointerviste ai partecipanti sono state proiettate a conclusione del percorso espositivo per tutta la durata della mostra.
I testi integrali delle narrazioni sono pubblicati in S. Bodo, S. Mascheroni, M. G. Panigada (a cura di), Un patrimonio di storie. La narrazione nei musei, una risorsa per la cittadinanza culturale (Mimesis Edizioni, 2016).
Qualche estratto dalle narrazioni
Giovanissimi volontari in fila per mettere la propria vita al servizio della patria, feriti e martiri caduti sulla terra giallastra delle trincee, locali fatiscenti adibiti ad ambulatori d’emergenza…
Le fotografie di Bahman Jalali mi riportano agli anni ottanta, lunghi pomeriggi ad aspettare il programma per ragazzi in TV, la voce entusiasta dell’annunciatore e quella musica simile ad una marcia di guerra.
Una volta mio figlio mi ha chiesto: “Mamma, esiste un modo per cancellare un pezzetto della memoria per non ricordare alcune cose che ti fanno male?”
Qualche anno dopo la Rivoluzione, scrivendo ai miei genitori, venni a sapere che il nome della nostra via a Teheran non era più “via Upupa dell’Ovest”, ma “via del Martire Shafapei”: il ragazzo che nei miei ricordi giocava a pallone dava il suo nome alla nostra via, perché ucciso nella guerra Iran-Iraq.
L’upupa aveva spiccato il volo e con lei un piccolo universo.
Mi chiedo cosa avrei fatto, se fossi rimasta in Iran a studiare cinema come ho sempre desiderato.
In una società al limite del paradosso, dove le definizioni sono nette e le sfumature spesso inesistenti, ammiro la sua sensibilità e il suo coraggio nel tentativo di conoscere l’altro superando i confini.
Avevo sei anni e conoscevo la regola del gioco: dopo la sirena non si doveva prendere l’ascensore. Il mio momento avventuroso era correre nel buio verso le scale, parlare a voce bassa, con l’urlo delle sirene nelle orecchie, e raggiungere il parcheggio, il nostro rifugio.
Poi continuo a raccontare storie e fantasie e non so più quanto siano vere e quanto manipolate o censurate dalla mia coscienza. Molte volte ho la sensazione di esagerare, di abbandonarmi al piacere teatrale di raccontare bugie, per quanto risultino strane e impossibili anche a me stessa. Perché non voglio proprio pensare che la guerra fosse così vera, così vicina e dolorosa.