Project Description
#STORIEPERRICOMINCIARE
Patrimonio di Storie, 2020
Mi sono riconosciuta, sono io la donna affacciata alla finestra verso il paesaggio, l’orizzonte, il futuro. Come me, lei guarda fuori ma vede se stessa. Percepisco in lei il mio sgomento nel sentirmi vulnerabile, privata della libertà e della quotidianità. L’impatto è stato più forte che guardarmi allo specchio.
Rosana Gornati, mediatrice museale
Edward Hopper, Cape Cod Morning, 1950
Nel lungo tempo di sospensione e di attesa che ha segnato il periodo più drammatico dell’emergenza Covid-19, abbiamo invitato alcuni dei narratori e degli operatori museali con cui abbiamo lavorato negli anni a condividere con noi brevi ma intensi racconti dedicati a opere che sono state loro di conforto durante la quarantena, hanno fatto da specchio a vissuti di angoscia, nostalgia, incertezza, distanza, ma anche da “ossigeno” per ritrovare frammenti di passato e per guardare al futuro.
Da un dossale d’altare dipinto da Zanobi Rosi (pittore poco noto ma tra gli allievi più dotati di Cristofano Allori) a una fotografia scattata da Antonio Rovaldi in una radura a Staten Island, il patrimonio ritorna ancora una volta a farsi “luogo” dove poter dare voce e senso alla propria storia, farla brillare, riscattarla dal silenzio.
Qualche estratto dalle narrazioni
Zanobi ambienta la scena in estate, come sulla collina sopra il Ponte. Si avverte negli alberi la presenza di una brezza leggera, il cielo è di un grigio pallido che sopravanza il polveroso cilestrino, delle grosse nuvole preannunciano forse l’arrivo della pioggia, ma nessuno si preoccupa: si sta troppo bene qui, tutti insieme, tutti vicini. Se dovesse arrivare il temporale ci sono berretti e sciarpe per coprirsi la testa.
Il carattere del dipinto rientra in quello di un realismo bozzettistico, ma quanta pace vi rintraccia il mio sguardo. Mi piace troppo restare qui, dove non sono sola, ci sono tanti amici, c’è lui che mi guarda, ho la consapevolezza di un momento perfetto.
Avere vent’anni e affacciarsi sulla vita è come spiccare il volo. Una paura diffusa e indefinita che trattiene con cautela da quel richiamo. Una curiosità mista a eccitazione e incoscienza, che spinge a chiudere gli occhi e a lasciarsi andare. Una tensione continua verso i misteri della vita. I piedi appoggiati al suolo sicuro e il viso teso verso il vento. Amore, passione, dolore, ferite. Ogni cosa richiama e ogni cosa respinge. Che significa vivere? Che significa amare? Che significa il dolore?
Credo che sia stata proprio Composizione VII di Vasilij Kandinskij a spiegarmi che la vita è un caleidoscopio di sfide, successi e fallimenti, voli pindarici e dolorose cadute. Colori caldi che esplodono il loro fuoco e colori freddi che congelano i movimenti. Linee che si intersecano, angoli che si toccano e penetrano, cerchi che avvolgono e contengono. Il silenzio del nero, l’immensa possibilità del bianco. Righe come graffi, di quelli che rimangono lì, indelebili. […]
Oggi più che mai, Composizione VII è l’invito a superare il dubbio, la perdita, il senso di sconfitta per sperimentare il cambiamento. Nuove possibilità. Con coraggio.
Un brivido caldo mi ha invaso nell’aprire WhatsApp e vedere Mattina a Cape Cod.
In mattinata ero stata alla finestra: la primavera si annunciava nei rami spogli degli alberi con le prime foglioline verdi, il glicine lungo la recinzione una splendida cascata lilla che profumava di dolce l’aria.
Mi sono riconosciuta, sono io la donna affacciata alla finestra verso il paesaggio, l’orizzonte, il futuro. Come me, lei guarda fuori ma vede se stessa. Percepisco in lei il mio sgomento nel sentirmi vulnerabile, privata della libertà e della quotidianità. L’impatto è stato più forte che guardarmi allo specchio. Il dolore e le incertezze che sto vivendo mi sono rimbalzate addosso di colpo, ma la mia reazione ha avuto la stessa forza. Come ha reagito quella donna quando ha lasciato la finestra?
Ci sono sei sedie in un bosco, nulla ci è dato sapere su chi le ha messe lì, di certo non ci sono arrivate da sole, non sono accatastate o rovesciate a terra, come indizi di un’improvvisa fuga, sono in cerchio, parlano il linguaggio universale della narrazione, evocano una piccola comunità di affetti, di persone che trovano ristoro nella frescura di questa radura. Sono di legno in mezzo al legno, sono una natura lavorata per accogliere l’uomo, sono come la sala di un museo, sono una conchiglia di sguardi, frasi, ascolto e tempo, di passaggi generazionali e di aneddoti leggeri, soste per il trascorrere del tempo e stanze tutte per sé, inviti a chi è di passaggio e perimetro di consuetudini radicate. Vedere queste sedie per me non è vedere un luogo abbandonato, ma una stazione in attesa, non è sconforto e resa, ma promessa di un ritorno.